Oggi il critico letterario Harold Bloom compie ottantaquattro anni. Pubblichiamo un intervento di Edoardo Pisani.
di Edoardo Pisani
L’artista deve vivere nel soggettivo.
Witold Gombrowicz
Come il Sainte-Beuve combattuto dal Proust postumo a inizio Novecento, Harold Bloom è considerato da molti uno dei maggiori critici letterari del nostro tempo, forse l’unico accademico a “godere” internazionalmente dello status di Grande Vecchio, di guru della letteratura. Il suo saggio più conosciuto, Il canone occidentale, è spesso letto e invocato quale baluardo estetico contro i critici marxisti o femministi o multiculturalisti o poststrutturalisti delle università americane, da lui definiti con sprezzo critici del Risentimento – quasi che Bloom non sia, a sua volta e più di altri, un risentito! Il canone bloomiano affonda le radici in Shakespeare, “aurora boreale visibile in un luogo che la maggior parte di noi non raggiungerà mai”, in Dante e in Cervantes, per poi innalzarsi e ramificarsi nella letteratura di tutti i tempi, da Montaigne a Milton a Goethe a Kafka, da Whitman a Proust a Borges a Pessoa, delineando influenze e parentele e catalogando senza sosta, costringendo autori e opere in suddivisioni fin troppo progressive, lineari, come se gli scrittori canonizzati dipendessero o l’uno dall’altro o, e per l’autore è senz’altro così, tutti da Shakespeare e da Bloom.
Abusando del suo stesso metodo, potremmo dire che Harold Bloom è a sua volta un discendente di Samuel Johnson e di Sainte-Beuve, critici che peraltro non nega di amare. Ne Il canone occidentale per esempio si passa da Tolstoj a Ibsen a un divertente Freud scespirizzato – “Amleto non soffriva del complesso di Edipo, ma Freud soffriva senza dubbio del complesso di Amleto, e forse la psicoanalisi è un complesso di Shakespeare…” – a Proust a Joyce a una Woolf sempre mal sopportata e a tratti sminuita, una grande scrittrice cui i complessi da maschio medio e da viscerale (e risentito!) critico antifemminista di Harold Bloom costringono a fare letteralmente la paternale – “suo padre, Leslie Stephen, non era l’orco patriarcale dipinto dal suo risentimento”; “Virginia Stephen, una donna organizzata in maniera complessa, avrebbe subìto crolli ancora più frequenti e completi a Cambridge e a Oxford, e non avrebbe avuto l’istruzione letteraria garantitale dalla biblioteca del padre”; “come reazioni al padre, l’estetismo e il femminismo di Woolf erano così compatti che nessuno sarebbe più riuscito a dividerli…” Eccetera eccetera: come il Sainte-Beuve odiato e demolito da Proust, qui Bloom eccelle viscidamente nell’arte della riduzione del genio, manovrando la vita di Virginia Woolf, donna organizzata in maniera complessa (e a questo punto ci si chiede in che limpida maniera fossero “organizzati” gli altri autori del Canone), quale pretesto per regolare le sue beghe con il femminismo accademico.
“They shall not pass!” Questo sembra gridare, mutando talvolta il grido in lamento, Bloom contro i falsi lettori, i risentiti, facendosi scudo con Shakespeare e Dante e combattendo le femministe, i postmarxisti, i decostruzionisti, i semioticisti e via di seguito; poi però il suo stesso astio lo rende simile e forse peggiore dei suoi nemici – un risentito in più! In un mondo in cui assegnano il premio Nobel “a ogni idiota di quinta categoria” (e non al suo Philip Roth) o a scrittori francesi “illeggibili” (Le Clézio) o “che nessuno conosce” (prima del Nobel Modiano era tradotto in oltre 20 lingue, inglese compreso) o a autori turchi, cinesi, svedesi e via dicendo, Bloom ama dipingersi come l’ultimo lettore possibile, uno scespiriano elegiaco accerchiato da una massa di idealisti risentiti – di cui non si accorge di far parte!
Harold Bloom o del risentimento, dunque. Oppure Harold Bloom o del furore genealogico, catalogante. O ancora, e forse soprattutto, Harold Bloom o della riduzione del genio, come quando scrive del padre di Virginia Woolf o del fascino di Goethe – “Goethe incantava così tanto se stesso e chiunque lo circondasse che nessuno dei personaggi da lui creati reggeva il confronto con il suo creatore” – o di Edgar Allan Poe – “Poe viene accettato a un livello così universale che è impossibile escluderlo dai maggiori autori americani, sebbene la sua scrittura sia quasi sempre pessima” – o di Arthur Rimbaud – “Rimbaud fu un grande innovatore nell’ambito della lirica francese, ma sarebbe sembrato molto meno rivoluzionario se avesse scritto nella lingua di William Blake e William Wordsworth, di Robert Browning e Walt Whitman…”; al che ci viene da opporre i famigerati merde scagliati da Rimbaud all’ormai ignoto Auguste Creissels o da chiederci più educatamente per quale motivo bisogna mettere in competizione, manco la letteratura fosse una corsa campestre o un torneo di bocce, geni diversissimi quali Keats, Hugo, Baudelaire, Rimbaud, Whitman, Dickinson, Eliot e così via, tralasciando i contemporanei.
Per bisogno di un canone? Per foga genealogica, suddividendo influenze e debiti e grandezze e scrivendo frasi del tipo: “Tutti i movimenti francesi sono stranamente in ritardo rispetto alla letteratura angloamericana…”? O per i soliti complessi misuranti di Harold Bloom, che sembra valutare le prestazioni di ogni grande scrittore, da Milton a Tolstoj a Joyce a Beckett, con il righello Shakespeare?
Nei confronti di Tolstoj le pagine del Canone sono esemplificative: dopo aver dichiarato che “è doloroso parlare di limitazioni in Tolstoj, limitazioni che tuttavia esistono solo se lo si paragona a Shakespeare” e che “non sappiamo se Tolstoj avesse mai amato qualcuno, compresi i suoi figli”, Bloom confessa di essere spesso “tentato di organizzare un gioco di società in cui classificare gli scrittori più grandi in base al loro grado di solipsismo…”
E in questo caso il pensiero corre, o meglio schizza, a un lampo di Roberto Bolaño, il “concorso di masturbazione che organizzano i presidenti e le tre uniche modalità di vittoria: grossezza, vinta dall’ambasciatore dell’Ecuador, lunghezza, vinta dall’ambasciatore del Brasile, e lancio del seme, prova massima, vinta dall’ambasciatore d’Argentina.” Ecco: la prova massima onanista, il lancio del seme, contenuta ne La letteratura nazista in America, ci pare adatta tanto agli ambasciatori di Bolaño quanto agli insopportabili cataloghi di Harold Bloom, sorta di critico onnisciente che riduce e incasella e condanna ogni grande autore a una masturbazione a perpetuità, nei secoli, affibbiando prolunghe scespiriane o dantesche (o whitmaniane – “You villain touch!”) e indicando al common reader l’inimitabile foga orgasmica di Omero o Dante o del Bardo di Stratford-upon-Avon…
Bolaño aveva letto i saggi di Harold Bloom. “Credo che Bloom si sbagli, come in tante altre cose” afferma in Tra parentesi, contestando una sua lettura nerudiana, salvo poi aggiungere che “in tante altre cose Bloom è forse il miglior saggista letterario del nostro continente.” Bolaño infatti era un ammiratore di Harold Bloom, seppure con molte riserve, tanto da scrivergli delle lettere (purtroppo non ancora edite), citarlo in diversi articoli e addirittura parodiarlo, sbeffeggiandone la foga catalogante e competitiva. “Nell’immenso oceano della poesia” scrive in un celebre brano de I detective selvaggi, ripreso ne I dispiaceri del vero poliziotto, “distingueva varie correnti: finocchioni, finocchie, finocchietti, pazze, busoni, velate, ninfe e fileni…” E ancora: “Una pazza, secondo San Epifanio, era più vicina al manicomio fiorito e alle allucinazioni in carne viva, mentre i finocchioni e le finocchie vagavano sincopatamene dall’etica all’estetica o viceversa…” Oppure: “Il panorama poetico, dopotutto, era essenzialmente la lotta (sotterranea), il risultato del conflitto fra poeti finocchioni e poeti finocchie per impadronirsi della parola…”
Bloom è un grande lettore di poesia, forse l’unico americano a conoscere e amare tanto Leopardi quanto Campana, tanto Neruda quanto Nicanor Parra, e Roberto Bolaño, enfant terrible della poesia contemporanea, lo sapeva – come resistere alla tentazione di pasticciarne lo stile? Hai un grande critico, sei un grande scrittore – che altro puoi fare, se non sbeffeggiarlo? In effetti sarebbe interessante conoscere la reazione di Harold Bloom di fronte ai pastiche critici di Bolaño; un lettore attento e egocentrico come lui non può non riconoscere il proprio metodo, il proprio stile – e trasalire!
Bloom: “Come Whitman, Dickinson è la più pericolosa delle influenze dirette. I seguaci più fedeli di Whitman sono quelli più nascosti: l’Eliot della Terra desolata e Stevens. Allo stesso modo, la massima influenza di Dickinson si osserva in Elizabeth Bishop e May Swenson, che si sforzarono di non assomigliarle sulla superficie poetica. La sua affinità più ovvia è quella con la poesia di Emerson, ma i suoi immediati precursori, come quelli del filosofo, sono i tardoromantici inglesi, e le sue affiliazioni nascoste sono sorprendentemente shakespeariane…” Bolaño: “Il fatto è che un poeta frocione come Leopardi, per esempio, ricrea in qualche maniera poeti froci come Ungaretti, Montale e Quasimodo, il trio della morte. Nello stesso modo Pasolini rivernicia il frociume italiano attuale, si veda il caso del povero Sanguineti (su Pavese non metto bocca, era una checca triste, un esemplare unico nella sua specie)…”
“I suspect Bolaño is another period piece. His excess attracts but flows away…” Così risponde Bloom a chi gli chiede di Bolaño, prevedendone la scomparsa e circoscrivendolo al suo tempo, e tuttavia al riguardo sembra insolitamente evasivo, incerto, incapace di stroncarlo veramente. Negli Stati Uniti I detective selvaggi e 2666 sono stati accolti come le opere estreme di uno dei massimi scrittori degli ultimi anni, con studi approfonditi sulle maggiori riviste e clin d’oeil ovunque (Bolaño si affaccia persino in un film da blockbuster quale Now you see me, con Woody Harrelson che lo legge prima di essere arrestato dall’Fbi – e chissà se l’omaggio è opera del regista o degli sceneggiatori o dello stesso Woody Hareelson…). Possibile che Harold Bloom, giudicando la mania bolaniana another period piece, un fenomeno passeggero, non sappia stroncarlo in modo più deciso, con veemenza, come fa con altri autori? O è incapace di raccoglierne la sfida?
“Non mi sembra che nella letteratura contemporanea ci sia nulla di radicalmente nuovo. Non ci sono più grandi poeti…” ripete laconicamente Bloom (che noia!) a El país – al che l’intervistatore gli chiede di Bolaño, appunto, e la risposta è tanto ambigua quanto sfuggente, breve: “Lì dentro c’è qualcosa, vedremo. Io e lui avevamo molte differenze, anche se ha detto che l’ho influenzato…” Dopodiché Bloom passa a elogiare Parra e Vallejo e soprattutto Octavio Paz, suo “very dear friend” e arcinemico di Bolaño, a proposito del quale si guarda bene dall’aggiungere altro, limitandosi a quel we’ll see, vedremo, in tono paternalista – come se Bolaño fosse uno studentello sul banco di prova della posterità! Quanto a lui, Harold Bloom, ça va sans dire: Bloom è il dio esaminatore, il giudice dei grandi scrittori; e chi altri potrebbe esserlo? Dio è morto, il dottor Johnson e Sainte-Beuve sono morti, Harold Bloom non si sente molto bene…
Un autore che ha avuto il coraggio (e il talento!) di attaccare apertamente Bloom è Jonathan Franzen. I due si detestano: Bloom considera le opere di Franzen dei Pynchon di terz’ordine e Franzen si fa beffe continuamente delle teorie e del maschilismo bloomiani. Se Harold Bloom non sembra aver colto i pastiche e la sfida di Bolaño, Franzen ha di sicuro risposto alle critiche di Bloom – e il duello è in atto! Bloom dice, ripetendo la solita litania: “Nella nuova generazione non c’è nessuno paragonabile a Roth, Pynchon, DeLillo e McCarthy, e non riuscirò mai a capire l’entusiasmo per David Foster Wallace e Jonathan Franzen. Ho finito da poco Libertà e mi sembra Pynchon in versione annacquata…” Franzen risponde: “Bloom mi ricorda Norman Mailer: entrambi non possono ammettere che qualcosa di buono sia venuto dopo la loro generazione. I critici come Bloom tendono ad amare gli autori che essi stessi hanno aiutato a emergere. Io ho portato i miei lavori direttamente ai lettori senza bisogno del suo aiuto e non mi sorprende se ciò lo ha irritato…” A questo bisogna aggiungere che Franzen si è scagliato con estrema violenza (che coraggio!) anche contro Philip Roth, noto protegé di Bloom, affermando che “invece di pensare in modo ossessivo a vincere il Nobel, farebbe meglio a scrivere libri migliori” – e in effetti viene da chiedersi, con un filo di malizia, quali letterine di buon compleanno abbia scritto il Roth degli anni Ottanta a Harold Bloom e quali non abbiano invece mai scritto Saul Bellow, definito da Bloom “an immensely wasted talent”, o lo stesso Jonathan Franzen…
Franzen massacra la teoria delle influenze di Bloom. Tutto Il progetto Kraus può essere letto in chiave antibloomiana, e a ragione, giacché Kraus stesso derideva e massacrava Freud, uno dei capisaldi del canone bloomiano. “Nel mio ultimo semestre al college avevo letto alcuni saggi di Harold Bloom in cui si parlava molto di poeti ‘forti’ e poeti ‘deboli’” racconta Franzen. “Dato che io comunque avrei scritto romanzi, immaginavo che mi avrebbe dato molta più gioia e soddisfazione essere forte…” E più avanti: “Quando cominciai a leggere il Pynchon, nel seminterrato della casa di periferia della famiglia che mi ospitò per le prime cinque settimane a Berlino, stavo leggendo anche L’angoscia dell’influenza di Bloom, come se Pynchon fosse un virus letale e la teoria letteraria la tuta protettiva che mi avrebbe permesso di maneggiarlo senza rischi. Ma la tuta era inutile…”
Oppure, in Più lontano ancora: “Secondo Harold Bloom, che sulla distinzione tra autori ‘deboli’ e autori ‘forti’ nella sua acuta teoria dell’influenza letteraria ci ha costruito una carriera, non sarei consapevole di quanta influenza E. M. Forster eserciti tuttora su di me. L’unico a esserne pienamente consapevole sarebbe proprio Harold Bloom.” E finalmente: “Il più grande problema della domanda sulle influenze, tuttavia, è che sembra presupporre che i giovani scrittori siano blocchi di argilla morbida sui quali certi grandi scrittori, morti o viventi, lasciano un marchio indelebile. E la cosa più fastidiosa per lo scrittore che cerca di rispondere con sincerità è il fatto che quasi tutte le sue letture gli hanno lasciato una sorta di marchio…”
Per il momento l’attacco krausiano di Franzen non ha sortito alcun effetto; dall’Università di Yale non giungono reazioni, risposte. Probabilmente il guardiano del Canone è troppo impegnato a non leggere Roberto Bolaño…
Bloom continua a lamentarsi, nelle interviste e nei saggi: non ci sono più grandi scrittori, non ci sono più grandi poeti, gli ultimi premi Nobel sono perlopiù illeggibili, il tal libro di certo non è un capolavoro, la tal grande scrittrice di racconti (Alice Munro) non è all’altezza di James o Hemingway (ma perché confrontarli?), il tal grande scrittore in realtà è uno scribacchino, eccetera. In America e in Europa è considerato un maestro della letteratura occidentale, l’unico critico in grado di dare del tu ai maggiori scrittori contemporanei e ai classici, soppesandoli e suddividendoli e classificandoli senza tregua; di fatto però è talmente preso dai propri canoni e cataloghi e scuole delle età e paternalismi saccenti e attacchi ai “risentiti” da non accorgersi di appartenere a sua volta a una corrente letteraria ben più elementare, stucchevole, una scuola che proclama da tempo non la fine del romanzo o la morte dell’autore bensì l’estinzione del lettore puro, appassionato, incolpando il chiasso linguistico della modernità, i videoclip, Mtv, il rap, il pop, l’ignoranza delle masse e via di seguito, fino al cinismo o alla rassegnazione, al disincanto – forse perché le loro opere non sono abbastanza lette, amate?
“Non riesco a immaginare poeti, interpreti dell’essere, nell’eone che viene” scriveva Guido Ceronetti già nel 1996, prefaendo le sue poesie. “Anime in esilio tante, e disperate, ma non di questo tipo, non capaci di versarsi in poesia. Lo stato delle lingue stesse non lo consentirà, la vigilanza feroce del Brutto – acustico o visivo – non lo consentirà…” Dopo Ceronetti il diluvio, quindi? O dopo Ceronetti (e Bloom) il Dio Selvaggio, cioè la ribellione e il caos, il grido di Yeats e lo scempio di Ubu roi – l’Apocalisse, infine! O dopo Ceronetti (e Bloom, i cui saggi peggiori non valgono una sola poesia di Ceronetti) il linguaggio del Brutto acustico o visivo o verseggiante o romanzesco – qualunque esso sia! Recentemente, in una serie di articoli ripresi nel Tragico tascabile, lo stesso Ceronetti si è definito con ironia uno scrittore prima semifallito e poi semiriuscito – fallito perché incapace di impedire la degenerazione della lingua italiana, “spregevolmente prostituita all’angloamericano”, con “un libro di eccezionale bellezza eppure in grado di attrarre all’incirca venti milioni di lettori”; riuscito perché in possesso di “un riparo forte come la morte: la tranquillità d’animo di un dovere perfettamente compiuto, secondo la parola di Baudelaire, faro nelle tenebre, comme un parfait chimiste et comme une âme sainte…”
In Francia, varcando il faro e i fiori baudelairiani e scavalcando le Alpi, la situazione è pressoché identica, con la belle langue in preda a inglesismi di ogni tipo e gli scrittori sempre più marginali, esausti, rassegnati o a imitare goffamente i bestseller d’oltreoceano (con il beneplacito degli editor) o a morire per la lingua, con la lingua. Un esempio: “Il disincanto è quel processo per cui la letteratura sembra non soltanto volgere al termine per esaurimento dei suoi due veicoli supremi, il romanzo e la poesia, ma anche quello che raccoglie per effetto dell’ottenebramento del mondo o per il fatto di non poter più rivaleggiare con il sociologico, il cinema, l’ignoranza, il crollo sintattico…”
Qui pare davvero di leggere la chiusa elegiaca del Canone; si tratta invece de Il disincanto della letteratura di Richard Millet, malinconico custode di una lingua in declino e di un canto del cigno culturale, canto fin troppo rassegnato, come se le nuove generazioni fossero incapaci di leggere e di scrivere – e di aggredire (perché no?) i risentiti come Millet o Bloom! Per fortuna Richard Millet, a differenza di Harold Bloom, ha la lucidità di aggiungere: “Può darsi anche che non sia l’era del romanzo che vedo volgere al termine ma sono io che sono arrivato a un’età in cui il romanzo si è esaurito in me, sono io che ho smesso di interessarmi e che ho bisogno, scrivendo, di reinventarlo in me, compito sicuramente impossibile e tuttavia più che mai urgente nella sua feconda inattualità…” Ah, se soltanto Bloom scrivesse la stessa cosa, internandosi fra gli esauriti piuttosto che prendendosela con il rap e il rock e i premi Nobel e i fumetti e indicando il proprio Canone come unica via di salvezza – la salvezza del lettore autentico, scespiriano, bloomiano!
Shakespeare, appunto. Harold Bloom è innegabilmente uno migliori saggisti scespiriani del nostro tempo, benché sia Shakespeare a salvare il lettore bloomiano e non viceversa – cosa che talvolta sembra credere Bloom, ergendosi a ultima sentinella della letteratura occidentale, quasi che Otello e Iago abbiano bisogno dei suoi libri per non essere travolti e linciati e sradicati dal palco (e dalle librerie) da una massa di ideologi risentiti, dal pubblico, come le marionette di Davoli e di Totò nell’Otello di Pasolini. In ogni caso, Shakespeare, L’invenzione dell’uomo è la sua opera più riuscita; per Bloom le commedie e i drammi scespiriani compongono una vera e propria Bibbia dell’umanità, un codice linguistico e comportamentale che si tramanda fra le generazioni e che di fatto crea il pubblico, l’uomo.
Gli stessi critici del Risentimento, afferma Bloom, sono caricature di Iago e Edmund; Shakespeare non solo mette in scena la natura umana, come già scriveva il dottor Johnson, ma la incarna, la è, in tutte le sue variabili psicologiche e emotive. Shakespeare è Dio, fondamentalmente, e a leggere Harold Bloom pare che il suo attuale rappresentante in Terra sia proprio Harold Bloom, mentre Samuel Johnson potrebbe essere un valido Gesù Cristo (e a questo punto, spingendo il gioco più in là, Antonin Artaud, voce quasi assente dal Canone, un Giordano Bruno, Emily Dickinson una Giovanna d’Arco, la Recherche di Proust un’arca di Noè, eccetera eccetera – fino all’Apocalisse di Mtv?).
Lo Shakespeare di Bloom vuole essere definitivo, totale. Le maggiori opere del Bardo sono studiate e scandagliate con originalità e talento e i personaggi rivivono nel testo, accompagnando l’autore e il lettore fino a diventare opere anch’essi, ricreandosi a ogni rilettura e chiamando in causa altri lettori e critici scespiriani, personaggi a loro volta, voci, da Johnson a Wilde a Levin a Freud, da Kierkegaard a Nietzche a Pirandello a Beckett, componendo una sorta di orchestra interpretativa dei drammi, un prisma critico cui il giudizio di Harold Bloom è al tempo stesso la summa e il canone, l’ultima chiave di lettura possibile – e spesso è davvero illuminante, come quando scrive che “non riusciamo a guardare Amleto da un numero sufficiente di prospettive e ne cerchiamo sempre di nuove, perché la grandezza e l’indifferenza non fondono tanto il principe nella natura quanto confondono la natura con lui” o che “la meraviglia, la gratitudine, lo sgomento e lo stupore” sono l’unico approccio giusto a una lettura critica di Shakespeare.
Altrettanto spesso, tuttavia, il risentimento e il protagonismo di Bloom prendono la scena, scalzando la gratitudine e lo stupore e riducendo le opere scespiriane a mero scudo per le sue battaglie accademiche, invero più simili a beghe condominiali che a battaglie, attaccando i marxisti, le femministe e gli ideologi di ogni genere, colpevoli di contestualizzare ideologicamente Shakespeare (è il famigerato “Shakespeare francese”, per Bloom), oppure sputando en passant su grandi scrittori per lui sopravvalutati, come de Sade (un francese, guardacaso!), che oltre a scrivere “in maniera abominevole”, sarebbe soltanto un mediocre epigono dell’Angelo di Misura per misura, profanatore della commedia e sadico ante litteram…
Pur volendosi totale, esaustivo, lo Shakespeare di Harold Bloom è perciò totalizzante, totalitario, per usare un gioco di parole di Romain Gary, costringendoci nei malumori e nei pregiudizi del suo autore, nel suo assolutismo saccente, risentito. Un’opera che, pur partendo da presupposti simili, ossia la grandezza e l’universalismo biblico di Shakespeare, può essere raffrontato e a tratti perfino opposto alla lettura di Bloom è Di vita si muore di Nadia Fusini, viaggio nello “spettacolo delle passioni” delle maggiori tragedie scespiriane, a sua volta strutturato come un dramma in sé, con un prologo, cinque atti, un intermezzo (il demone della lussuria) e un congedo, cioè l’epilogo.
Di vita si muore, dunque, e l’apparente ossimoro del titolo, unito al nome dell’autrice, ci porta sia a Shakespeare che a Virginia Woolf, alla storia d’amore vissuta con Vita Sackville-West, su cui Nadia Fusini ha scritto pagine memorabili, appassionate – la stessa Virginia Woolf maltrattata ne Il canone occidentale, e anche questo contrappone le due letture, come Simone Weil, citata in epigrafe di Di vita si muore e protagonista di Hannah e le altre, una fool scespiriana (così si definiva lei stessa) del tutto ignorata da Bloom…
Bloom contro Fusini, quindi. Un punto di incontro per il duello potrebbe essere la lettura elotiana dell’Amleto, Hamlet and his problems, nella quale il dramma scespiriano viene definito senza mezzi termini an artistic failure, un fallimento artistico, disarmonico, puzzling, troppo denso di pathos e di scene superflue, inconsistenti, da tagliare o rivedere. Cosa rispondono Harold Bloom e Nadia Fusini? Per Bloom “il nostro enigma irrisolto deriva dal fatto che la maggiore personalità teatrale della produzione shakespeariana è al centro di un dramma famoso per le sue ansiose aspettative, per i suoi ritardi incessanti, che sono più della parodia di una vendetta rimandata all’infinito. Amleto è un grande attore, come Falstaff e Cleopatra, ma il suo regista, il drammaturgo, sembra punire il protagonista per essergli sfuggito di mano, per essersi trasformato nello spiritello maligno che ha rubato la ghirlanda ad Apollo e forse aver suscitato più dubbi di quanti il suo creatore ne nutrisse già” – e risponde alle critiche elotiane riprendendo una frase di William Hazlitt, it is we who are Hamlet, Amleto siamo noi, e adducendo: “Credo che Eliot, con tutte le sue ferite, abbia reagito alla malattia spirituale di Amleto, il malessere più enigmatico della letteratura occidentale.”
Nadia Fusini invece lascia perdere le “ferite” di Eliot, qualunque esse siano, affrontando le sue critiche strutturali al dramma: “Da tempo leggo Amleto, e da sempre, ancora prima di aver letto Deleuze, da sempre so che nelle anse, nelle pieghe, si nasconde il suo principio costruttivo. Il suo ritmo non è affatto ‘tutto uno sbaglio’, come sostiene Eliot. Se il testo si piega e si ripiega e si avviluppa, e l’azione ristagna, si intasa, non è perché la forma rinascimentale abbia perduto la sua magnifica misura: il fluire ordinato di atto in atto di un’azione e una materia scenica che deriva le sue leggi da un teatro, che è quello greco, nella rilettura degli umanisti. O nella riscrittura di Seneca. Shakespeare non fa questo. […] È su una piega del tempo che si incanta il principe-attore. Il tempo è, nella misura più semplice, la misura del passaggio, il calcolo del movimento; Amleto lo sa bene. E lo sa la tragedia in cui sta, che è soprattutto un dramma sulla natura del movimento. La questione del moto finito e infinito, la meraviglia, lo stupore di fronte al movimento, davanti a una differente rotazione dei pianeti, della terra, sono assolutamente centrali alla struttura logica del secolo. La trasformazione intellettuale che ne deriva è strabiliante. Vertiginosa.”
E questa vertigine rinascimentale, che Bloom taccerebbe stupidamente di “contestualizzazione”, per Nadia Fusini diventa lingua, linguaggio, fra le pieghe della volontà e dell’essere, del divenire – “Lapsed in time and passion: Shakespeare non conosceva il greco, ma conosceva bene il latino, ed è straordinaria la ricaduta del verbo latino labor, lapsum, sum, labi, che perfettamente trasporta in ‘lapsed’ il labor di Amleto, quel suo faticoso muoversi tentennando, cadendo e ricadendo, continuamente scivolando lungo il vettore del Tempo nelle sabbie mobili della sua passione…”
Il confronto – per ribaltare contro Bloom il suo stesso metodo agonistico – è impietoso: da una parte si tirano in ballo le supposte ferite di Eliot, una citazione di Hazlitt e il “malessere della letteratura occidentale”, dall’altra ci si addentra nel pathos e nel linguaggio scespiriani, scavando fra le pieghe strutturali e visionarie del testo. Più in generale, mentre Nadia Fusini vive e soffre e ama con Shakespeare, Harold Bloom sembra troppo preso a difendere il proprio status di grande critico, di censore e catalogatore, tendendo generalmente a chiudere le opere studiate, restringendone la grandezza e concentrandosi sulla psiche dei personaggi (dove le sue letture eccellono) ma non sulla lingua, sulle parole.
Di vita si muore invece è aperto, libero, traboccante di ossessioni e gelosie, di follie e amori, di ira e urla – di passione. “Com’è che il grido della creatura è così bello?” chiede Simone Weil sulla soglia del libro, e Nadia Fusini risponde con un vortice in fermento, cinque atti sequenziali, una spirale emotiva e filologica piena di sound and fury che intorno ai drammi e nei drammi si fa ritmo, lingua, perfino visioni, teatro, portando in scena tutto lo scibile del sentire umano, dall’amore alle ossessioni, dal furore alla follia, fino ad assorbire il lettore, ovvero lo spettatore, in una “recita” ormai diventata mondo, furia, bellezza, vita – e di conseguenza morte, giacché di vita, di troppa vita forse, si muore.
“Come not between the dragon and his wrath” ammonisce il re Lear nella sua furia, e Nadia Fusini, per cui la lingua è tutto, spiega: “Nel termine wrath – che è parola di origine sassone – rifulgono le spire serpentine che nella radice antica alludono a un moto del corpo e dell’animo che in sé si attorciglia e che nell’immagine della piega e dell’intrigo trasporta l’idea di malvagità. Lì, in quella radice, non a caso si intrecciano la collera rabbiosa del vecchio Lear e l’astuzia maligna (wreth) delle figlie. Il male si attorciglia. Il male è un serpente…”
E se il male è un serpente la lettura di Di vita si muore si attorciglia a sua volta, segue i moti e le serpentine del linguaggio e delle passioni umane, e sa essere addirittura politica, con buona pace di Bloom, ad esempio quando l’autrice descrive l’epidemia di peste bubbonica di inizio secolo, con i soccorritori che bussano alle porte delle case “così forte da risvegliare gli ammalati, bussano, bussano; ma se dentro sono tutti morti nessuno apre e allora sfondano la porta per raccogliere i cadaveri…” – e così in Shakespeare la morte bussa e lo spettatore trasale, sgomento, da Otello a Misura per misura al terribile Macbeth, nel secondo atto, al Whence is that knocking? e dopo il My hands are of your colour; but I shame to wear a heart so white, ripreso in Corazón tan blanco di Javier Marías, non a caso un traduttore, come Nadia Fusini. E allora: Knock. I hear a knocking. Knock. Hark! More knocking. Knock. Wake Duncan with thy knocking! Sveglia Duncan coi tuoi colpi! Knock, knock, knock! Ma Macbeth ha ucciso il re Duncan nel sonno, e la tragedia – la morte, la paura – picchia alla porta e ci pervade…
“Di paura traboccano queste tragedie. E di pietà.” Così scrive Nadia Fusini nel magnifico congedo del saggio, a proposito di Bruto, di Amleto, di Ofelia, di Otello, di Desdemona, di Lear, di Cordelia, di Macbeth e della sua Lady, che di pietà hanno bisogno, e tuttavia le due frasi possono riguardare anche i libri di Harold Bloom, seppure in senso opposto – fino a farsi grido: “Di paura difettano questi saggi! E di pietà!”
Di pietà e di paura sono privi tanto i saggi quanto le singole opinioni di Harold Bloom, scaltramente sparse fra articoli e interviste e prefazioni, la sua saccenteria mista a arroganza e il suo stesso metodo di lettura, non dissimile da quello di Sainte-Beuve. Di sciocca presunzione è invece invasa la sua foga da inventario, che lo spinge a suddividere e classificare o persino a soggiogare i grandi autori di ogni tempo, quasi competessero con lui, mentre nessuno scrittore o artista si lascerà mai incastrare in uno schema critico o impiccare a un albero genealogico, scespiriano o meno – la letteratura non è un albero, Bloom, bensì una foresta in fiamme o una selva oscura! Scrivere del disamore di Tolstoj o del risentimento antipatriarcale di Virginia Woolf non intacca in alcun modo le loro opere, al contrario, semmai svilisce e condanna e rende dimenticabili e ripetibili proprio i saggi di Harold Bloom – giacché morto un Sainte-Beuve, morto un Harold Bloom, se ne disfarà sempre un altro.
Non esitiamo quindi a dichiararci contro Bloom, con forza, pur riconoscendone l’erudizione e un certo talento critico, già lodati da Roberto Bolaño e in parte da Jonathan Franzen, nell’ambito della poesia – quanto a noi, ci basta leggere il primo paragrafo di L’arte di leggere la poesia (“La poesia è essenzialmente linguaggio figurato, condensato in modo tale che la sua forma sia espressiva e al contempo evocativa. La figuratività si distacca dal significato letterale, e la forma stessa di una grande poesia può essere un tropo o figura retorica…”) per essere sopraffatti dalla noia e dalla nausea e vomitare e preferirgli qualsiasi poesiaccia o racconto zoppicante dell’ultimo degli scribacchini, che in quanto ultimo sarebbe pure interessante. Tale reazione è forse eccessiva, violenta, oltre che poco fine, e tuttavia è proprio per eccesso e per violenza, oltre che per amore, che ci diciamo contro Bloom, e i toni a tratti urlanti e isterici di questo attacco vogliono per l’appunto opporsi allo stile compassato dei saggi bloomiani, alla loro boria pretenziosa – noi siamo contro Bloom!
Noi siamo contro Bloom. Bisogna ripeterlo, urlarlo! Noi siamo contro Bloom e sogniamo una letteratura che incanti e travolga e strazi e sgomenti, una letteratura fatta tanto di parole quanto di gesti (oggi è il compleanno di Harold Bloom), se necessario una letteratura disperata e feroce ma se possibile scevra dal risentimento e dai calcoli, dalla vigliaccheria. Noi siamo contro Bloom e vogliamo credere, vogliamo disperatamente credere nei lettori che commuovevano Roberto Bolaño un mese prima di morire, che in fin dei conti siamo noi stessi o i nostri figli, “i lettori tout court, quelli che hanno ancora il coraggio di leggere il Dizionario filosofico di Voltaire, che è una delle opere più amene e moderne che io conosca…”
Noi siamo contro Bloom e sogniamo Arturo Belano e Arthur Rimbaud; noi sogniamo l’Arthur Rimbaud sognato da Antonio Tabucchi in Sogni di sogni, la notte del ventitre giugno 1891, a Marsiglia, mentre sogna lui stesso di abbandonare l’ospedale in cui dovrà morire per fare l’amore un’ultima volta, incartando la sua gamba amputata in un poema e sdraiandosi in un granaio – “Quando si furono amati la donna disse: resta. Non posso, rispose Rimbaud, devo partire, vieni fuori con me, a vedere l’alba che sorge…” Noi sogniamo una letteratura racchiusa, come in un guscio di noce, bounded in a nutshell, in un unico verso di Pessoa, A lua começa a ser real, La luna comincia a essere reale. Noi siamo contro Bloom e sogniamo la Rachel Bespaloff di Nadia Fusini, in Hannah e le altre, e l’Omero di Simone Weil (Ne recommençons pas la guerre de Troie!) e di Rachel Bespaloff e di Nadia Fusini, giacché chi scrive e chi legge “entra in un dialogo tra ombre, tra doppi, che affiorano come fantasmi nella lingua, tanto che alla fine si fatica a capire chi parla, chi parla in chi…”
Noi sogniamo dei lettori che sappiano leggere il Danubio di Claudio Magris sulle sponde della Senna, che come il viaggiatore danubiano riescano a osservare o a immaginare il “fluire che si apre e si abbandona alle acque e agli oceani di tutto il globo”, fino alla morte di Ognuno e alle parole di un poeta, Biagio Marin, “comò ‘l scôre de un fiume in t’el mar grando” – perché non c’è narrazione che non sbocchi in poesia, e viceversa. Noi sogniamo una letteratura che non renda saggi o liberi o migliori bensì consapevoli e ribelli, una letteratura fatta di amore e urla e fiumi e ribellione, poiché “lesen macht rebellisch”, leggere rende ribelli, scriveva Heinrich Böll. E infine noi sogniamo una conclusione veramente elegiaca. Una conclusione sofferta, sbagliata, che Harold Bloom non potrebbe mai capire. Perché noi sogniamo una finestra. Noi sogniamo la notte e le luci oltre quella finestra – mentre ci chiamano alla vita! Noi sogniamo una finestra e il buio e il terrore di uno sguardo scagliato nel vuoto, e in quel vuoto, contro quel vuoto, nella letteratura, noi gridiamo abbasso Bloom – e tanti auguri!